Sugli impianti audiovisivi che controllano i dipendenti, una recente giurisprudenza della Corte di Cassazione afferma che a difesa del patrimonio aziendale il datore di lavoro può controllare “a distanza” il proprio dipendente che tiene comportamenti illeciti (Cass. Pen. , sez. V, del 1 giugno 2010, nr. 20722/2010). E’ il caso del titolare di un bar che accortosi in più occasioni di qualche ammanco di cassa ha deciso di sorvegliare la cassiera la quale poi è stata effettivamente beccata con le mani nella marmellata!
E’ l’unico caso in cui la Suprema Corte ammette la legittimità dei controlli sui propri dipendenti e, nel caso di specie, di un’agenzia investigativa contro attività fraudolente del dipendente.
Le garanzie imposte dall’articolo 4 della L. 300/1970 per l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai controlli cd “difensivi”, ovvero a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso.
In queste ipotesi sono lecite ed utilizzabili le riprese da apparecchi di videosorveglianza che comprovano il reato di appropriazione indebita: ma le immagini sono utili solo a tali fini e per gli ulteriori fini disciplinari. Quando i riscontri siano vietati, l’uso di telecamere o di altre apparecchiature di controllo a distanza comporta, sul piano processuale, l’assenza di valore probatorio degli esiti dei controlli illegittimamente eseguiti: l’inutilizzabilità sia a fini disciplinari sia a fini risarcitori (per tutte: Cass. Sez. lav., del 26.02.2010, nr. 8250).
Il Garante della privacy negli ultimi tempi ha cercato di ridurre le distanze che esistono tra disposizioni di legge e nuove tecnologie. Così, ad esempio, è avvenuto con il provvedimento generale in materia di trattamento di dati personali e videosorveglianza dell’8 aprile 2010 che ha ripreso e superato quello del 2004.
Il regime punitivo degli atti di controllo inidonei, per chi utilizza sistemi non autorizzati di sorveglianza a distanza dell’attività del lavoratore (telecamere, sistemi gps, sistemi di rilevazione delle chiamate, software verifiche di internet), e rappresentato da sanzioni penali, quali l’arresto fino ad un anno ex art. 38 L. 300/1970, e amministrative. Una sanzione amministrativa da seimila a trentaseimila euro è stabilita per i datori di lavoro che omettono o danno inidonea informativa ai lavoratori del fatto che detengono e trattano dati personali che li riguardano (art. 160 del Dlgs 196/2003).
Su come vengono trattate tutte le informazioni relative al rapporto con i lavoratori, il Garante per la privacy può disporre, anche su denuncia, verifiche ed ispezioni in azienda, anche con l’aiuto di consulenti tecnici. Questi ultimi possono procedere a rilievi diretti, estrarre copia di ogni atto, dato o documento su supporto informatico o per via telematica (art. 159 Cod. privacy citato) e, inoltre, non collaborare alle indagini sulla privacy può costare alle aziende una sanzione amministrativa da diecimila a sessantamila euro (art. 164 Cod. privacy).
Invertendo le parti in causa una sentenza della Suprema Corte di Cassazione di appena qualche mese fa ha ritenuto utilizzabili i fotogrammi di un video realizzato sul luogo di lavoro da una dipendente per “incastrare” il proprio datore di lavoro dal quale subiva da tempo molestie sessuali. Secondo i giudici di legittimità la singolarità del caso, che permette una deroga alla tutela della privacy (e soprattutto della inutilizzabilità processuale), dipende dalla circostanza che le riprese erano state effettuate dalla protagonista dell’episodio – cioè la vittima – “verso cui il suo interlocutore non aveva lo jus excludendi, perché si trovava nel suo abituale ambiente di lavoro che costituiva il suo domicilio per un periodo limitato della giornata”. Quindi “con la ripresa visiva, sia pur effettuata furtivamente, la parte lesa non ha violato con interferenze indebite la intangibilità del domicilio né la necessaria riservatezza su attività che si devono mantenere nell’ambito privato” (Cass. pen., sez. III, 19.10.2010, nr. 37197).